Il Mio Libro di Momenti

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“Nella vita, dobbiamo collezionare momenti. Siamo tutti di passaggio.”

Mio cugino mi disse questa frase qualche anno fa. Penso che sia un modo meraviglioso per dire che dobbiamo goderci i momenti migliori della vita, perché il tempo vola e poi non ci resta più che guardare indietro per vedere quello che abbiamo vissuto. 

Nel mio caso, però, ho sempre pensato che la mia vita è fatta da una serie di capitoli. Quindi qui vorrei condividerne alcuni con voi.

Potrebbero sembrare disordinati, ma questo è il modo in cui hanno senso per me.

Capitolo 3: Mourinho in Piazza del Duomo

Nel 2009 ho vinto lo scudetto con l’Inter. Avevamo avuto una stagione piuttosto lunga tra partite, viaggi, ritiri e lontananza dalle nostre famiglie. Ma finalmente eravamo diventati i campioni. 

E allora dovevamo celebrare alla grande. 

Così fanno i campioni, vero?

Ma il nostro allenatore era l’unico e il solo José Mourinho. E, insomma, possiamo dire che, per quanto riguarda la celebrazione, The Special One aveva un piano diverso…

Hahaha, che ridere.

E’ andata così: Eravamo in un albergo di Milano, sabato sera, preparandoci per la partita di domenica contro il Siena. Sapevamo che se quella sera il Milan perdeva contro l’Udinese, noi saremmo stati i campioni. E allora abbiamo guardato la partita tutti assieme. Quando il Milan ha perso, siamo diventati matti.

INTER, CAMPIONE D’ITALIA! 

Shaun Botterill/Getty Images

E quindi, dov'è che andiamo? Facile. Piazza del Duomo è sempre il posto dove l’Inter celebra i suoi titoli con i tifosi. Ma quando ho parlato con Javier Zanetti, il nostro capitano, e con alcuni dei miei compagni, mi hanno detto che Mourinho non voleva che andassimo lì.

Infatti lui preferiva che ci riposassimo prima della partita col Siena. Non aveva proprio senso! Avevamo già vinto il titolo. Non avevamo altre competizioni da giocare. 

E allora ho capito subito che l’obiettivo di Mourinho era battere il record di vittorie nella Serie A in una stagione, o qualcosa del genere. Era un record che per lui andava bene. 

E ho perso un po’ la testa, hahaha. Ho parlato di nuovo con il Pupi (Zanetti): “Dobbiamo andare in Piazza. Ce lo meritiamo”.  

Mentre parlavamo, Mourinho passando da dietro, urlò: “Julio Cesar, ma perché non ci vai da solo?”. 

Io risposi: “Tutti vogliono andare. Solo che loro hanno paura di dirlo, e io no”. 

Ma lui se ne andò verso la sua camera. Per me era difficile accettare una cosa del genere e per questo motivo l’ho seguito in camera. Lui era già sdraiato sul letto. “Guarda, se non vieni in Piazza, non vincerai mai più un titolo!”

Lui si è alzato dal letto e mi ha insultato in tutti i modi. Non ne sono sicuro, ma a quanto pare aveva preso sul serio ciò che gli avevo detto. 

In ogni caso, presto sono arrivati 2 pullman per portarci a Piazza del Duomo. 

Qualche istante dopo, eravamo tutti lì a cantare ed a esultare con i nostri tifosi.  A un certo punto -avevo bevuto abbastanza-, ho preso Mourinho per il collo e gli ho detto: “Allora tu volevi restare in albergo?! Guarda questo! Questo è per te!” 

E lui si è messo a ridere. Siamo tornati alle 5 di notte. Direttamente a dormire. 

Il giorno dopo abbiamo battuto il Siena 3-0.

Capitolo 4: Lacrime a Madrid

Nella stagione 2008–09 il mio rapporto con Mourinho era come quello di un padre e un figlio. E poi è diventato più… beh, diciamo che è diventato solo più complesso.

Quando è arrivata la primavera del 2010 eravamo in lotta per lo scudetto, la Coppa Italia e la Champions League, il triplete. Io stavo giocando male. Avevo perso fiducia in me stesso. Un giorno, mentre mi stavo riscaldando prima dell’allenamento, Mourinho si avvicinò e mi disse, con una voce fredda come il ghiaccio: 

“Senti, tu sei passato da essere il migliore portiere del mondo a un portiere di Serie C”.

Hahaha.

Questo era il suo modo di motivarmi, lo sapete? L’idea era che io mi sentissi provocato per reagire. E con quasi tutti i giocatori, funzionava bene. Quella squadra ha avuto tanto successo perché Mourinho ci trattava in un modo diretto e molto trasparente. Non importava chi eri, lui ti criticava davanti a tutti. Ma la cosa è che non tutti reagiscono bene a questo tipo di atteggiamento. E io ero uno di questi. Ho perso la fiducia. In campo, mi sentivo ancora più’ insicuro. 

Senti, tu sei passato da essere il migliore portiere del mondo a un portiere di Serie C.

José Mourinho

Ma un’altra cosa positiva di Mourinho era che se tu ti sentivi trattato ingiustamente, potevi andare a parlargli. E in quel periodo abbiamo avuto una lunga chiacchierata molto positiva.

Prima di quella chiacchierata, mi ero sentito triste e pesante. 

Dopo quella chiacchierata, ero tornato alla normalità.  

Qualche mese dopo, sono stato scelto come portiere dell’anno in Europa da parte della UEFA. Abbiamo vinto il campionato e la Coppa, ma la grande conquista è stata la Champions League. Erano passati 45 anni senza vincerla, e il nostro presidente, Massimo Moratti, ne era ossessionato.  

Abbiamo giocato la finale contro il Bayern Munich al Santiago Bernabéu, a Madrid. Avevo invitato circa 70 o 80 persone! Tutta la famiglia e amici dagli Stati Uniti, Italia, Brasile, dappertutto. Al fischio finale, ho attraversato il campo per festeggiare con la mia famiglia e gli amici. Volevo soprattutto vedere mia madre, Maria de Fátima. Lei è sempre stata quella che mi ha dato fiducia, e che da bambino mi spingeva per giocare 11 contro 11, perché io preferivo giocare a futsal. L’ho baciata e abbracciata.

E’ bellissimo poter condividere un momento del genere con tutti quelli che ti hanno sostenuto nel tuo lungo percorso.

Nel campo, i giocatori e lo staff tecnico si abbracciavano, si baciavano, piangevano… ho trovato mio figlio, Cauet, me lo sono messo sulle spalle e siamo tornati in campo. 

Ho avuto il privilegio di godermi quel momento così speciale anche con lui.

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Capitolo 2: La famiglia Mengão

Non lo posso negare: la questione finanziaria ha sempre avuto importanza nel momento di scegliere i passi decisivi della mia carriera. Nel 2005, il Flamengo mi ha offerto un contratto che rispettava la loro realtà economica in quel momento, e che io ho saputo valorizzare. Ma quando l’Inter mi ha fatto una proposta migliore, io l’ho accettata. 

Sarei rimasto nel Flamengo se mi avessero fatto la stessa proposta economica? 

Sì, senza dubbi.  

Io sono molto tifoso del Flamengo. Sono nato a Rio de Janeiro. Il mio papà, Jenis, anche lui tifa il Flamengo. I miei 2 fratelli più grandi, Júnior e Janderson, tifano il Flamengo. Tutti impazziscono per il Mengão. Sono andato al club per la prima volta quando avevo 9 anni. Lì mi hanno plasmato come persona e come calciatore. Mi hanno pagato il mio primo stipendio e hanno messo il cibo sul tavolo di casa mia. Mi hanno fatto esordire come professionista quando avevo 17 anni.

La mia salute, la mia famiglia, le mie finanze… tutto ciò che ho oggi lo devo al Flamengo. 

Sfortunatamente, non sono mai riuscito a vincere un titolo con il Flamengo. Delle 4 stagioni in cui sono stato titolare, dal 2001 al 2004, in 3 abbiamo lottato per evitare la retrocessione.

E quanto abbiamo sofferto, haha! Troppo!

Quando giochi per una squadra che ha 40 milioni di tifosi, è come rappresentare una nazione, mi capisci? Loro sono molto appassionati ed esigenti. Nei momenti peggiori non potevamo neanche uscire da casa nostra, perché la pressione era molto pesante. Andare al ristorante? Puoi scordartelo. 

Nonostante tutto, i tifosi mi hanno sempre dimostrato amore e affetto. Penso che era perché io ero cresciuto lì, perché sapevo cosa stavano provando, avendo gli stessi sentimenti. E non ho mai nascosto il mio lato emotivo, sia ridendo che piangendo.

Inoltre, non siamo mai retrocessi. I tifosi ancora ne sono orgogliosi del fatto di poter dire che non siamo mai stati in Serie B, come è successo con tante grandi squadre brasiliane.

Il mio più grande rimpianto è la Copa Libertadores, la Champions League sudamericana, che è molto importante per il Flamengo. Quando ho esordito, il Flamengo l’aveva vinta soltanto una volta, nel 1981, quando io avevo 2 anni. L’unica volta che sono riuscito a giocarla è quella del 2002. Eravamo nel girone con Olimpia (Paraguay), Universidad Católica (Cile) e Once Caldas (Colombia). In Brasile nessuno aveva mai sentito parlare dell’ Once Caldas. Il presidente del Flamengo, Edmundo Santos Silva, è tornato dal sorteggio dicendo che il girone era molto facile. 

Ci ha detto: “Giocheremo contro l’Once Caldas”. 

E noi: “Once chi?”  

E lui: “Appunto”. 

Il mio più grande rimpianto è la Copa Libertadores, la Champions League sudamericana, che è molto importante per il Flamengo.

Júlio César

A dire la verità, penso che anche la maggior parte dei tifosi la pensasse più o meno così. Ma alla fine, l’Once Caldas si è rivelata una buona squadra, e la Católica era abbastanza rispettata. Per quanto riguarda l’Olimpia, sarebbe diventato campione. 

Noi, invece, siamo finiti all’ultimo posto del gruppo. Un disastro.  

Capitolo 5: Il Pugile a Toronto

Nel 2012, dopo 7 anni e mezzo all’Inter, non avrei mai pensato di poter giocare con la maglia di un’altra squadra. 

E certo meno, potevo immaginare che sarei andato al Queens Park Rangers.  

Tutto il processo è stato molto difficile. L’Inter voleva abbassare i costi di stipendi e la rosa iniziò a indebolirsi. Mi hanno proposto di rinegoziare il mio contratto, l’ho considerato molto ingiusto, e allora ho deciso di andar via. E’ stato tutto molto triste. 

Avevo soltanto una proposta sul tavolo: QPR. Come sempre, per me i soldi contavano, ma mi ha anche convinto il progetto che mi hanno presentato. La Premier League era una cosa eccitante, e Londra è una città fantastica. Non è andato come previsto, però. Il club ha fatto grossi investimenti, ma la mentalità vincente non c’era, e siamo retrocessi. Per quanto riguarda me, penso che io abbia fatto bene con Mark Hughes. Ma quando è arrivato Harry Redknapp, per me è stata la fine.  

Con Harry abbiamo avuto qualche disaccordo, ma sempre con rispetto. Lui ha scelto un’altro portiere, Robert Green. Va bene. Ma era strano, perché poi mi si avvicinava e mi diceva: “Tu sei un portiere fantastico”. E io pensavo: “E allora fammi giocare”. 

La cosa più incredibile è che mentre non avevo opportunità di giocare una partita per il QPR nella Championship, ero titolare nel Brasile! A novembre del 2012, la CBF (Confederazione del Calcio Brasiliano) aveva scelto come allenatore, Luiz Felipe Scolari, o Felipão, come lo conosciamo in Brasile. Felipão mi richiamò immediatamente e mi fece giocare nella prima partita, un'amichevole contro l’Inghilterra.  

Ma poi la stampa ha iniziato a criticarlo per aver scelto un portiere che non giocava nella sua squadra. La gente diceva che la mia carriera era già in discesa. Mentre nel QPR nessuno sembrava di interessarsi per il fatto che io giocassi con il Brasile. E cosa c’entra se lui gioca in una delle nazionali più rispettate del mondo?  Nemmeno dopo la vittoria nella Confederations Cup del 2013, in cui sono stato nominato miglior portiere del campionato, la mia situazione è cambiata. 

Potevo pure fare 2 anni di fila senza prendere un gol col Brasile e sarei comunque rimasto in panchina col QPR.  

Jon Super/AP Photo

L’anno successivo, la pressione su Felipão è cresciuta, perché avevamo la nostra Coppa del Mondo, in casa, e qualsiasi cosa diversa dal titolo sarebbe stata un disastro. Nove mesi prima dell’inizio, Felipão disse alla stampa: “Anche se non gioca nella sua squadra, Julio Cesar andrà al Mondiale”.  

Quella era una grande cosa da dire. Per l’annuncio della rosa mancava ancora tanto tempo, ma Felipão mi aveva assicurato un posto. Era un modo di togliermi pressione, e gli sarò sempre grato per quello.  

Ma avrei giocato nella Coppa del Mondo? Quello era un’altro discorso. L’unica cosa che aveva detto Felipão è che io sarei stato uno dei 3 portieri.  

Quindi, dovevo approfittare ad ogni opportunità che mi veniva data, per far vedere che ero in forma. 

A novembre 2013, il Brasile doveva giocare un'amichevole contro il Cile a Toronto, Canada. Sarebbe stata l’ultima partita del Brasile per 3 mesi e mezzo. Il problema è che, 2 mesi prima, io mi ero rotto un dito e dislocato altri 2. Il timing era stato terribile. Il medico del QPR aveva detto che non sarei stato in grado di andare alla partita contro il Cile. 

Ma io ho pensato…. “No… Io devo esserci”. 

Poi mi ha telefonato Felipão: “Ciao, come stai?”  

E io: “Bene mister, mi tenga in considerazione, io ci sarò”.  

“Ma come? Se ti sei rotto un dito…”, ha detto. 

“Abbia fiducia, mister”, ho risposto.

Così ho assunto un fisioterapista brasiliano che si chiama Fred Manhaes. Lo conoscevo da quando avevo 17 anni. Lavorava con le mie dite al QPR e anche a casa. Poche settimane dopo stavo molto meglio. La chiave era che continuavo a lavorare fuori dal club. Al QPR seguivo un programma abbastanza conservativo, mentre a casa spingevo per guarire più velocemente. Mi sono messo persino ad allenarmi in un parco di Londra, con mio figlio. Lui tirava e io paravo. Lo facevamo pure a casa. 

Al QPR ancora lavoravo con un pallone di spugna.  

A casa invece ero scatenato!  

Nel giorno della convocazione per l’amichevole, ho detto a Felipão che ero al 100%. Lo staff del QPR non ci credeva affatto. Il dottore che mi aveva operato disse che non aveva mai visto una guarigione del genere.  

Ho giocato quella partita contro il Cile. E abbiamo vinto 2-1.  

Al QPR ancora lavoravo con un pallone di spugna.  A casa invece ero scatenato!

Júlio César

Quello non voleva dire che io sarei stato titolare nel Mondiale. Infatti, nonostante quello che aveva segnalato alla stampa, Felipão era preoccupato dal fatto che io non giocassi, e mi chiamava costantemente.

“Ei, guri. Ti sei già trovato una nuova squadra?”

La questione preoccupava anche me. Erano passati 6 mesi dalla Confederations Cup e la stampa era tornata su di me ancora una volta. Non appena si aprisse la finestra invernale di mercato, dovevo andarmene. Ma l’unico club pronto per farmi una proposta è stato il… Toronto.  

(No, il Flamengo non mi ha proposto nulla, contrariamente a quelle voci dell’epoca)

Ad essere sincero, andare in prestito al Toronto non era il trasferimento sognato. Ma per partecipare alla Coppa del Mondo, dovevo giocare. Alla fine è andata bene. Sono arrivato a febbraio, e durante tre mesi consecutivi mi sono dedicato ogni ora del giorno al calcio. La mia giornata era casa, allenamento, casa, partita, casa, allenamento, casa… Ero estremamente concentrato.

Mi sentivo come un pugile che si prepara per l’incontro della vita.

Capitolo 6: Il 7–1

Bene, allora… mentirei se dicessi che è una questione superata. Non c’è modo di superare una cosa del genere. Rimane con te, soprattutto essendo un portiere. Forse ce la fai ad essere dimenticato se sei il terzino sinistro, o un centrocampista, ma il portiere? Impossibile. Sai come vanno le conversazioni. 

“Oh, chi era il portiere di quella Coppa? Ti ricordi, quello della partita dove il Brasile è stato sconfitto 7-1 dalla Germania in semifinale?”

Ah, certo, era Julio Cesar!  

Ma che si può fare? L’unica cosa è tentare di rimettersi a posto. E fai un sacco di lavoro psicologico. Tenti di guardare avanti. Oggi, grazie a Dio, la gente parla meno di questa partita, ma ho accettato il fatto che questa partita non mi lascerà mai del tutto. Mai.  

L’unica cosa che posso dire è che non mi sono mai pentito di aver giocato quel Mondiale. Rifarei tutto nello stesso modo, tranne il risultato. Ho giocato una Coppa del Mondo nel mio paese. Sono stato in 3 Mondiali con il Brasile. Quello è un grande onore.  

E non dimenticherò mai quei rigori negli ottavi di finale contro il Cile. Quando ho parato quei 2 rigori, il Brasile si è bloccato. Il paese intero era con me, accanto a me, a salvare quei rigori.  

Qualunque cosa dica la gente, nessuno potrà mai togliermi le sensazioni di quel momento.  

Ma poi è arrivato il 7-1, che ci ha distrutto. Eravamo a pezzi. Penso che ogni brasiliano che ha giocato quella partita, quando è uscito dal campo era una persona diversa.  

Dopo la partita, ho detto alla mia famiglia che volevo smettere.  

Ero così giù, che mi ero dimenticato delle cose che mi avevano fatto innamorare del calcio.  

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Capitolo 1: Júnior al Maracanã

Quando ero piccolo, andavo spesso con mio padre e i miei fratelli al Maracanã per le partite del Flamengo. Abitavamo vicino allo stadio, strada Visconde de Santa Isabel. Il cuore batteva più forte che mai ogni volta che prendevamo quella rampa gigante che ti porta dentro lo stadio. Sensazionale. 

Il mio papà era sempre preoccupato per noi. E urlava: “Tutti assieme!”. E ordinava al maggiore di prendersi cura degli altri 2. “Datevi la mano!” E poi iniziavamo a spingere tra la gente. Andavamo sempre alla Geral, una tribuna storica del Maracanã, quella con i biglietti più economici. Eravamo lì quando il Flamengo vinse col Santa Cruz 3–1 nel 1987, e Zico segnò una tripletta. Io avevo 7 anni, ma me lo ricordo chiaramente, soprattutto quell’ultimo gol, una punizione che è andata direttamente all’angolo superiore. Wow!  

Eravamo lì anche quando il Flamengo giocava contra Criciúma, se non sbaglio, e Júnior — il gigante Leovegildo Lins da Gama Júnior — correva con il pallone vicino alla metà campo. Quando lui si preparò per tirare, ricordo che mio padre urlò: “NOOOOOOO!” 

Non voleva che Júnior facesse un tiro da così lontano. Invece Júnior ha mandato la palla in rete, e la Geral diventò pazza. Il mio papà mi abbracciava e saltava con me, e io gli ho detto: “Tu hai detto che lui non doveva tirare!”. E lui: “No, ma così si fa un gol! E’ gol!”  

Ho sorriso davanti a lui. Poi mi ha ripreso la mano e così abbiamo continuato a saltare. 

Capitolo 7: Il Rientro a Casa

Dopo il Mondiale del 2014, uno dei motivi per i cui volevo smettere era la mia situazione al QPR. Non avevo nessuna motivazione per giocare lì. Mi sentivo inutile.  

Per fortuna, qualche settimana dopo, ho riflettuto con calma e ho scelto di andare avanti. Puoi accettare quello che ti da la vita, oppure reagire a quello che ti da la vita. E io ho scelto di reagire. 

 Presto avevo firmato con il Benfica.

Perché il Benfica? In quel momento sapevo solo che amavo Lisbona. Oggi posso anche dire che il Benfica sarà sempre nel mio cuore. Mi ha aiutato a vincere 6 titoli in 3 anni e mezzo. Ma al di là di questo, mi hanno dato la possibilità di innamorarmi di nuovo del calcio. Sarò sempre grato al suo presidente, Luís Filipe Vieira, per avermi aiutato nel momento peggiore della mia carriera.  

Ma verso novembre 2017, ho capito che il mio tempo al Benfica era finito. E ho deciso di terminare il mio contratto.  

E praticamente quello era tutto. Fine carriera. 

Mi pento di qualcosa? Assolutamente no. Ho giocato per più di 2 decenni. Ho vinto tanti titoli importanti. Sono molto grato per tutto quello che ho vissuto. 

Dio mi ha dato tanto più di quello che avrei potuto sognare da bambino.  

Ma non volevo che la mia carriera finisse con la rescissione di un contratto con il Benfica. Allora a gennaio del 2018, sono tornato a casa. E ho firmato con il Flamengo.  

Sono stato lì soltanto per qualche mese. Per me era un periodo per ringraziare e dire addio ai tifosi. Ho giocato una partita, come capitano — abbiamo vinto 2-0 contro l’América-MG al Maracanã. C’erano 50 mila tifosi che mi hanno dimostrato tanto amore. Gli avevo dato sempre tutto, e loro lo sapevano.  

Essere riuscito a dire addio in quel modo è stato un privilegio che non dimenticherò mai. 

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Capitolo 8: La Fine

Quando ho smesso di giocare, il mio rapporto con il Flamengo è diventato quello di un tifoso. E un anno dopo, il Flamengo è arrivato alla finale della Copa Libertadores.

Non vincevamo quel torneo dal 1981.  E adesso giocavamo contro il River Plate a Lima. Sono andato allo stadio con mio figlio, Cauet. Anche lui è diventato un grande flamenguista. Eravamo seduti davanti a Fred, di Desimpedidos, che avevo conosciuto per la prima volta quel giorno.  

Prima della partita mio figlio era molto, molto nervoso. Quando il River ha segnato, lui ha perso tutta la fiducia. Nella ripresa, il Flamengo continuava a soffrire. Gli ho detto: “La partita finisce quando l’arbitro fischia”.  

Ma quando eravamo già vicino al tempo di recupero, lui avevo perso tutta la speranza. E all’improvviso Gabigol segna il pareggio. Ci siamo abbracciati mentre saltavamo di gioia. Mi sono girato per abbracciare pure Fred.  

E immediatamente, Gabigol segnava di nuovo. Il Flamengo aveva vinto la finale nel tempo di recupero. Ho preso Cauet in braccio e mi sono messo a urlare: “TE L’HO DETTO! TE L’HO DETTO!”. 

Per un attimo, sembrava che il tempo fosse andato indietro e io mi trovavo di nuovo nella Geral al Maracanã. Ho guardato mio figlio e ho visto me stesso, da giovane. E io ero il mio papà, impazzito. Dopo tanti anni, i ruoli si erano invertiti.  

Poi sono tornato alla realtà. Mi sono girato, ho abbracciato Fred e poi ho perso la forza. Subito mi si è oscurato tutto e sono caduto per terra.  

I dottori poi mi hanno detto che ero così eccitato che ho smesso di respirare, e allora non c’era più ossigeno arrivando al cervello. Per fortuna non è stata una cosa grave. Ma la caduta di spalle contro la sedia dietro di me è stata molto dolorosa. Quando ho ripreso coscienza, ho tentato di simulare che non era successo niente. L’unica cosa che potevo dire era, “Oddio, ma che è successo?”

E lui: “Allora tu veramente senti quest’emozione?” 

“Ma sei matto? Devo la mia vita al Flamengo”

Esultare per quella vittoria, con mio figlio, è un ricordo che avrò per sempre. Si tratta di una di quelle cose che ti fanno ringiovanire, nonostante l’età.  

Ed è stato anche un’altro capitolo che adesso mi permette di avere un sorriso quando guardo indietro. Dio mi ha permesso di scrivere più di quanto avrei immaginato.  

Tutto sommato, è stato un libro bellissimo. Finora.