We Are All Brothers | Kalidou Koulibaly Opens Up About Racism On the Pitch

Siamo Tutti Fratelli

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Credo che i bambini capiscano il mondo meglio degli adulti. 

Soprattutto per come vanno trattate le persone. 

A volte la gente mi fa queste domande nelle interviste ed è difficile rispondere, mi chiedono: “Kouli, che cosa provi quando la gente ti fa ‘buu buu’? Non ti dà fastidio? Che cosa bisogna fare?”. 

Finché non lo vivi, non riesci veramente a capirlo. È una cosa talmente brutta ed è difficile parlarne. Ma cercherò di spiegarti perché voglio far passare un messaggio molto importante a tutti i bambini che leggono questo. Prima di salutarci, ti racconterò della lezione più importante che ho imparato nella vita.

Ma prima di tutto, dobbiamo parlare di odio. 

La prima volta che ho veramente vissuto il razzismo nel calcio è stato contro la Lazio qualche anno fa. Ogni volta che prendevo palla sentivo i tifosi che facevano dei versi da scimmia. Mi dicevo che forse me lo stavo solo immaginando. Quando è uscita la palla ho chiesto ai miei compagni: “ma lo fanno solo a me?”.

La partita è ripresa e mi sono accorto che alcuni tifosi della Lazio facevano ‘buu buu’ ogni volta che toccavo la palla. È impossibile sapere cosa sia meglio fare in quel momento. Ci sono stati dei momenti in cui sarei voluto uscire dal campo per mandare un messaggio, ma poi mi sono detto che era proprio quello che si aspettavano che facessi. Ricordo che mi dicevo “Perché lo fanno? Perché sono nero? Non è normale essere nero in questo mondo?”.

Stai facendo il gioco che ami come avevi fatto mille volte prima. Ti senti ferito. Ti senti insultato. Arrivi addirittura a un punto dove quasi ti vergogni. 

Dopo un po’ l’arbitro, il Sig. Irrati, ha fermato il gioco, mi è corso incontro e mi ha detto: “Kalidou, sto con te, non ti preoccupare. Facciamo finire questi ‘buu’. Se non vuoi finire la partita fammi sapere”. 

Penso che sia stato molto coraggioso, ma gli ho detto che volevo finire la partita. Hanno fatto un annuncio al pubblico e, dopo tre minuti, abbiamo ripreso a giocare. Ma i ‘buu’ non si sono fermati.

Ettore Ferrari/ANSA via AP

Dopo il fischio finale camminavo verso il tunnel ed ero arrabbiatissimo, ma poi mi sono ricordato di qualcosa di importante. Prima della partita c’era una giovane mascotte con cui sono entrato in campo mano nella mano, mi aveva chiesto la maglia e gli avevo promesso di dargliela dopo la gara. Quindi mi sono girato e sono andato a cercarlo. L’ho trovato sugli spalti e gli ho dato la mia maglia. E indovinate la prima cosa che mi ha detto? 

“Chiedo scusa per quello che è successo.”

Mi ha colpito molto. Questo bambino chiedeva scusa per non so quanti adulti, e la prima cosa a cui pensava era come mi sentivo io.  

Gli ho detto: “Non fa niente. Ti ringrazio. Ciao”. 

Questo è lo spirito di un bambino. È questo che manca al mondo in questo momento. So che succedono questi episodi e non solo per il colore della pelle. Sento quello che dicono i tifosi ai miei compagni di squadra, chiamano i serbi “zingari” e chiamano pure un italiano come Lorenzo Insigne “napoletano di merda”. 

Dobbiamo fare di meglio. Capita un episodio del genere e le società fanno un bel comunicato e poi succede di nuovo. Si vede invece quanto è cambiata la situazione in Inghilterra. Quando viene identificata la persona responsabile, viene radiata a vita dallo stadio. Spero che un giorno sarà così anche in Italia. Come fai a cambiare la gente? Come gli entri nel cuore? 

Non ho le risposte a queste domande. Posso solo raccontarti la mia storia. 

Magari le persone mi guardano e vedono solo un calciatore oppure un calciatore nero. Ma sono molto più di questo. Dico sempre ai miei migliori amici: “Se mi vedete come un calciatore e non come il piccolo Kouli, e non come il vostro amico, vuol dire che ho fallito nella vita”. 

Sono cresciuto in Francia in una città che si chiama Saint-Dié, dove c’erano tanti immigrati: senegalesi, marocchini, turchi. I miei genitori venivano dal Senegal. In realtà, il mio padre è arrivato per primo, faceva il taglialegna. Sì, un vero taglialegna francese. Esistono veramente. Prima di trovare quel lavoro era andato a Parigi senza documenti e aveva lavorato in una fabbrica tessile. Sette giorni su sette, anche il sabato e la domenica. Lo ha fatto per cinque anni in modo da mettere da parte abbastanza soldi per portare mia madre in Francia. E poi il piccolo Kalidou è nato a Saint-Dié. (Hanno preso ispirazione per il mio nome dal Corano).

Mia madre racconta spesso della prima volta che siamo tornati in Senegal. Avevo sei anni e un po’ di paura. Era la prima volta che vedevo i miei nonni e i miei cugini ed era uno shock vedere come viveva la gente in altre parti del mondo. Tutti i bambini correvano scalzi e ci ero rimasto male. 

Mia madre dice che le supplicavo di andare al negozio e comprare delle scarpe per tutti, così potevo giocare a calcio con loro. 

Ma mia madre mi disse: “Kalidou, togliti le scarpe. Vai a giocare come loro”.  

Alla fine mi sono tolto le scarpe di corsa e sono andato a giocare a piedi nudi con i miei cugini, ed è qui che inizia la mia storia con il calcio. Quando siamo tornati in Francia giocavo tutti i giorni in un piccolo parco vicino a casa. Il campo era metà erba e metà cemento e spesso dovevamo fermare il gioco per lasciare passare le macchine. C’erano tantissimi immigrati nel quartiere quindi giocavamo Senegal contro Marocco, Turchia-Francia, Turchia-Senegal. 

Era come il mondiale tutti i giorni. 

Era il tipo di quartiere dove, come posso dire? Se tua madre aveva bisogno di qualcosa, non andavi prima al negozio, andavi dal vicino. Nessuna porta ti era chiusa, capito? Andavo dalla nostra vicina e chiedevo: “Ciao, Mohammed c’è?”.

Sua madre mi diceva: “No, è uscito. Ma vuoi giocare con la PlayStation?”. 

Io non avevo la PlayStation a casa mia, quindi entravo, mi toglievo le scarpe e mi rilassavo come se fosse casa mia. Ero il benvenuto.

Se la nostra vicina mi diceva: “Kalidou, vai al negozio a prendere del pane”, andavo al negozio come se me l’avesse chiesto mia madre.

Quando cresci in un ambiente del genere sono tutti tuoi fratelli. Eravamo neri, bianchi, arabi, africani, musulmani, cristiani, sì ma eravamo tutti francesi. Avevamo tutti fame, quindi si andava a mangiare tutti cucina turca, o venivano tutti a casa mia a mangiare piatti senegalesi.

Eravamo neri, bianchi, arabi, africani, musulmani, cristiani, sì ma eravamo tutti francesi.

Sì, abbiamo le nostre differenze ma siamo tutti uguali. 

Ricordo che durante il mondiale del 2002 dovevamo andare a scuola durante Francia-Senegal. Il torneo si svolgeva in Giappone e c’era il fuso orario. Eravamo tutti usciti durante l’intervallo e giocammo come se fosse la finale della Coppa del Mondo e poi dovemmo rientrare a lezione. Eravamo molto tristi. 

La partita iniziava alle 14.  

Alle 13:59 il nostro maestro ci disse: “Dai, aprite i vostri libri.”  

Noi aprimmo i nostri libri ma sognavamo, nessuno riusciva a pensare di leggere. Avevamo in mente Henry, Zizou, Diouf… 

Passarono due, tre minuti, poi il nostro maestro guardò il suo orologio e disse: “Ok, mettete via i vostri libri.”

Pensammo tra noi: “Che succede? Cosa sta dicendo?”. 

Poi disse: “Ora guarderemo un film molto formativo che sono sicuro troverete molto noioso.” 

Prese il telecomando e sintonizzò la piccola TV dell’aula sulla partita. 

Ci disse: “Rimane il nostro segreto, va bene?”.

Fu uno dei momenti più belli della mia vita. Eravamo in 25 in classe: turchi, marocchini, senegalesi, francesi, ma eravamo tutti insieme. Ricordo perfettamente che dopo la vittoria del Senegal camminavo verso casa e vedevo tutti i genitori dei miei amici senegalesi che ballavano per strada. E poi, visto che erano tutti così contenti, anche i genitori dei turchi e francesi iniziarono a ballare con loro.  

Questo ricordo mi è rimasto impresso perché è questo il calcio. Il mio quartiere è così.

Puoi avere tutto nella vita: puoi avere soldi, belle macchine, ma ci sono tre cose che non si possono comprare: l’amicizia, la famiglia e la serenità. 

Queste sono le cose più importanti della vita. Non si comprano da nessuna parte. È questa la lezione più importante che possiamo insegnare ai nostri figli. I miei genitori me lo hanno insegnato. Del calcio non gli importava davvero nulla.

I miei genitori non venivano mai a vedermi giocare. Mio padre venne una volta, mia madre mai. Ma a volte guardavano le grandi partite con me quando le davano alla TV. Nella mia testa mi dicevo che se non fossero venuti allo stadio allora avrei dovuto portarceli io.

Avrei dovuto giocare partite che davano in TV, in questo modo mi avrebbero guardato.

Non dimenticherò mai della mia prima convocazione in prima squadra a Metz. Sono entrato verso la fine e sapevo che trasmettevano la partita in TV. Subito dopo la partita chiamai mia madre e le chiesi: “Mamma, hai visto? Sei contenta?”.  

Mi disse: “Contenta? Giochi sempre a calcio. È normale. È quello che ti piace, no? Solo che ora giochi in TV. È bello”. 

JEAN-PIERRE CLATOT/AFP/Getty Images

Non lo diceva con cattiveria, lei è così. Per lei era lo stesso gioco che facevo da bambino. Forse sarebbe meglio se più persone la vedessero in questo modo. Il calcio è un gioco che deve unire le persone, no? Ho girato il mondo grazie al calcio. Sono andato a Genk in Belgio e poi a Napoli in Italia. Ho imparato tante lingue e ho conosciuto tante persone. 

C’è un detto che recita: “Quando impari tutte le lingue, puoi aprire tutte le porte”. 

Non ti mento, sono colpevole anch’io di aver avuto pregiudizi su certi luoghi e certe persone. Prima di venire a Napoli ero in ansia perché non sapevo parlare la lingua e la gente parlava male della mafia e così via. Non ci ero mai stato, quindi non sapevo se raccontassero la verità.

Ti racconto una storia divertente. 

Giocavo al Genk in Belgio e il mio amico Ahmed sarebbe venuto a stare da me per qualche giorno. Stavo aspettando che arrivasse in stazione quando ricevetti una chiamata da un numero sconosciuto. 

Quando impari tutte le lingue, puoi aprire tutte le porte.

Risposi in inglese: “Pronto, chi parla?”

“Buon giorno, sono Rafa Benitez.”.

Gli dissi: “Dai Ahmed, smettila di prendermi in giro. Sono qui ad aspettarti” e attaccai. 

Mi chiamò di nuovo e iniziai ad arrabbiarmi.  

Gli dissi: “Dai Ahmed, basta. Sono qui. A che ora arrivi?”.

“Pronto? Sono Rafa Benitez”.

Attaccai di nuovo il telefono. 

Poi mi chiamò il mio procuratore e risposi. 

“Ciao Kouli, come stai? Hai già parlato con Rafa Benitez del Napoli? Ti chiamerà.” 

Gli risposi: “Cosa? Ma stai scherzando? Credo che mi abbia appena chiamato. Pensavo che fosse il mio amico a farmi uno scherzo!”.

Il mio procuratore allora chiamò Rafa per spiegargli cosa che era successo così lui mi richiamò e io risposi come se niente fosse. 

Gli dissi: “Hello, Rafa! Hello! Bonjour! Hola! Hello!” 

“Ciao, vuoi che parli in inglese?”

“Come preferisce, possiamo parlare nella lingua che vuole.” 

Alla fine abbiamo parlato in francese.  

Mi fece mille domande: “Sei fidanzato, ti piace andare a ballare, conosci la città, i giocatori?” 

Gli risposi: “Allora mister, conosco Hamsik”.

A dir la verità non conoscevo veramente i giocatori e non sapevo niente della città ma ovviamente conoscevo Rafa Benitez e tutto quello che mi disse mi fece un’ottima impressione.  

Dopo la telefonata chiamai subito il mio procuratore e gli dissi: “Fai tutto quello che devi fare. Andiamo a Napoli”. 

Francesco Pecoraro/Getty Images

Mancavano solo 48 ore alla fine del mercato di gennaio e il Napoli non riuscì a raggiungere un accordo con il Genk. Ma Rafa mantenne la parola e mi prese quell’estate. Quando arrivai per le visite mediche ero ansioso perché non parlavo ancora l’italiano. Il presidente De Laurentiis mi salutò nel corridoio. 

Ti racconto un aneddoto. 

De Laurentiis mi guardò un po’ storto e mi disse: “Quindi sei tu Koulibaly?” 

“Sì, sono Koulibaly”

“Ma non sei alto? Ma non eri alto 1,92?” 

“No, presidente, sono alto 1,86”

“Mannaggia! C’è scritto dappertutto che sei 1,92! Devo parlare con il Genk per avere dei soldi indietro!”

“Nessun problema, presidente. Paghi pure il prezzo pieno, gli darò ogni centimetro in campo, non si preoccupi”. 

Gli piacque molto questa frase. Si mise a ridere e mi disse: “Va bene, sei il benvenuto qui a Napoli, Koulibaly. Benvenuto”. 

Nessun problema, presidente. Paghi pure il prezzo pieno, gli darò ogni centimetro in campo, non si preoccupi.

Dopo le visite mediche, Rafa mi portò a pranzo e la prima cosa che fece dopo che ci eravamo seduti, prima ancora che ci portassero i menù, fu di prendere tutti i bicchieri di vino dalle altre tavole. Li mise sul tavolo e li sistemò. Nella mia testa, mi dicevo, ‘Che sta facendo? È pazzo?’. 

Lui mi disse: “Ok, ora ti faccio vedere la tattica.” 

Poi arrivò il cameriere e il mister spostò i bicchieri qua e là dicendo: “Noi giochiamo così. Vai qua, poi vai là, capito? Ora bisogna imparare due cose in fretta. Devi imparare la nostra tattica e devi imparare l’italiano”. 

“Va bene, mister”. 

Quando poi tornai da una breve vacanza Rafa mi chiuse in una stanza con il match analyst e mi fece vedere le mie giocate migliori. Lanci bellissimi, dribbling e interventi in scivolata. 

Mi disse: “Questo, questo e quest’altro…”

“Bello, no?”

“Non fare più queste cazzate.” 

“Ma ho preso la palla!” 

“Questo è culo! Hai recuperato la palla grazie alla tua forza fisica. Se il tuo avversario fosse stato più intelligente, saresti stato in difficoltà.”

Poi mi fece vedere altre immagini. Niente di che. Azioni normali. 

Sorrise e disse: “Così. Così va bene. Va benissimo così.”

“Mister, ma sono giocate semplici.” 

“Appunto Kouli”.  

Questo la dice lunga sulla mia esperienza qui. Ero un ragazzo quando sono arrivato in Italia. Sono diventato un calciatore migliore perché ho imparato la tattica ad alti livelli. Sono così precisi qui sulla tattica, ma la cosa più importante è che sono diventato un vero uomo di famiglia e un vero napoletano. 

Anche quando torno a casa in Francia ormai, i miei amici non mi chiamano più “il senegalese” o “il francese”, ma dicono: “Ecco il napoletano”. 

Napoli è una città che ama la gente. Mi ricorda l’Africa perché c’è tanto affetto. La gente vuole toccarti, vuole parlarti. La gente non ti tollera, ti ama. I miei vicini mi vedono come un figlio. Da quando sono arrivato a Napoli sono un uomo diverso. Sono davvero tranquillo.

Francesco Pecoraro/Getty Images

La cosa più bella è che mio figlio è nato qui. Non mi scorderò mai di quel giorno perché è una storia pazzesca che riassume perfettamente Napoli.

Mia moglie era andata in ospedale la mattina e quella sera avremmo giocato contro il Sassuolo in casa. Eravamo in sala video ed il mio telefono continuava a vibrare. Di solito lo spengo ma ero preoccupato per mia moglie. 

Mi aveva chiamato cinque o sei volte. 

Il nostro allenatore all’epoca era Maurizio Sarri. È un tipo molto intenso, quindi non volevo rispondere. Alla fine uscii di corsa, risposi al telefono e mia moglie mi disse: “Devi venire subito, nostro figlio sta arrivando”. 

Allora andai da Sarri e gli dissi: “Mister, mi scusi ma devo andare. Sta nascendo mio figlio!”.

Sarri mi guardò e mi rispose: “No, no, no. Ho bisogno di te stasera, Kouli. Mi servi davvero. Non puoi andare”. 

Gli dissi: “Sta per nascere mio figlio, mister. Faccia quello che vuole. Mi dia una multa, una squalifica, non mi importa. Io vado”. 

Sarri sembrava così stressato e fumava una sigaretta. Fumava, fumava e rifletteva e poi alla fine disse: “Va bene puoi andare in ospedale ma poi devi tornare per la partita stasera. Ho bisogno di te, Kouli!”. 

Andai di corsa in ospedale. Se non sei diventato padre per la prima volta, non puoi capire questa sensazione. Non puoi perderti la nascita di tuo figlio. Arrivai a mezzogiorno e, grazie a Dio, alle 13:30 era nato un piccolo napoletano. L’abbiamo chiamato Seni. È stato il giorno più bello della mia vita. 

Alle 16 mi chiamò il mister. Questo tipo, devi capire… è pazzo. Lo dico nel senso positivo ma è pazzo!  

Mi disse: “Kouli? Ma torni? Ho bisogno di te. Ho veramente bisogno di te. Ti prego!”

Mia moglie stava ancora recuperando le forze e probabilmente anche lei aveva bisogno di me. Ma non volevo deludere i miei compagni di squadra perché gli voglio davvero bene. E amo la città di Napoli. Mia moglie mi disse di andarci e io andai allo stadio. Stavo iniziando a prepararmi per giocare e Sarri entrò negli spogliatoi e attaccò l’undici di partenza al muro. Io cercavo, cercavo… 

Non c’era il mio numero. 

Gli chiesi: “Mister, ma sta scherzando?” 

“Cosa? È una mia scelta.”

Mi aveva messo in panchina!

Non mi aveva messo neanche titolare!

Gli dissi: “Mister, mio figlio, mia moglie. Li ho lasciati lì. Mi ha detto che aveva bisogno di me.” 

“Sì, abbiamo bisogno di te in panchina.”

Tutto quel casino e non giocavo neanche titolare! 

Ora che ci penso, mi viene da ridere, ma in quel momento mi veniva da piangere. 

Magari pensi che questa sia una storia negativa. Ma per me questa storia è tutto quello che amo di Napoli. Se la dovessi spiegare, non si capirebbe. È come cercare di spiegare una battuta. Devi venire in città e la sentirai. È pazza sì. Ma calda. 

Claudia Gori/The Players' Tribune

Forse mi conosci un po’ meglio ormai. 

Sì, sono un calciatore. 

Sono un calciatore nero.  

Ma non sono solo questo. 

Sono musulmano. Sono senegalese. Sono francese. Sono napoletano.  

E sono un padre. 

Ho girato tutto il mondo, ho imparato tante lingue e aperto tante porte. Ho avuto la fortuna di guadagnare tanti soldi. Ma ti ricorderò ancora della lezione più importante che ho imparato.  

Ci sono tre cose che non si possono comprare da nessuna parte: l’amicizia, la famiglia e la serenità. 

Lo abbiamo capito da bambini a Saint-Dié e voglio che anche mio figlio lo capisca. 

Spero che un giorno lo capiranno anche quelli che mi fanno ‘buu’. 

Sì, forse siamo diversi.

Ma siamo tutti fratelli.  

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