Cosa è successo davvero ad Alexandre Pato

Sam Robles/The Players' Tribune

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So cosa state pensando. L’ho sentito dire per 10 anni.

“Cosa è successo a Pato?”

“Perché Pato non ha vinto il Pallone d’Oro?”

“Perché Pato era sempre infortunato?”

Mah. Avrei dovuto rispondere a queste domande tempo fa. C’erano tantissime voci, specialmente a Milano. Facevo troppo festa. Non avevo voglia. Vivevo nel mondo delle favole. Quando volevo parlare mi veniva detto di “pensare al calcio”. Ero troppo giovane per controbattere.

Davvero, ero solo un bambino.

Quindi credo sia arrivato il momento di fare un po’ di chiarezza. Ora ho 32 anni. Sono felice e in forma. Non provo risentimento nei confronti di niente e di nessuno. Se volete credere alle voci, non sono qui per farvi cambiare idea. 

Ma se volete sapere cosa è successo davvero allora state a sentire.

La prima cosa che dovete capire è che ho lasciato casa molto presto. Forse troppo presto.

Quando hai 11 anni non sei pronto per il mondo. Parti per inseguire questo sogno ma sei solo e perdersi lungo la strada è davvero facile.

Dio mi ha dato un dono, questo è chiaro. Fino ai 10 anni non avevo nemmeno mai giocato in un campo regolamentare, perché il calcio a 5 era più divertente. Avevo ancora una borsa di studio per una scuola privata. Un giorno giocai in questo torneo scolastico e uno scout dell’Internacional chiese a mio padre: “Signore ha mai pensato di far provare il calcio a 11 a suo figlio?”

Mio padre disse: “Hmmmmmmmmmm, potresti aver ragione”.

Quindi ottenni un provino con l’Internacional. Ed è quando finimmo in un motel.

Ahahahah. Lasciate che mi spieghi. Non avevamo molti soldi. Mia mamma non poteva lavorare a causa di un mal di schiena, quindi mio padre doveva pensare al mio fratello maggiore, a mia sorella e a me. Stava fuori tutto il giorno per costruire autostrade. Avevamo da mangiare, ma non potevamo nemmeno permetterci i libri della scuola privata. Mi presentavo con le fotocopie. Davvero. 

Mio padre guidava un Maggiolino. Alla scuola privata non ce l’aveva nessuno. Io gli chiedevo di lasciarmi a un isolato dal cancello d’ingresso.

Lui mi chiedeva: “Ma perché?”

E io gli rispondevo: “Tutti i miei amici sono qui”. (anche se non c’era nessuno).

Quindi andavo all’ingresso e una volta una bella ragazza mi fa: “Ehi, tu sei quello con il Maggiolino vero?! Ahahahaahahahahahaah”.

NOOOOOOOOOOOOOO.

Quindi come potrete capire, certe volte mio padre era costretto ad arrangiarsi. Arriva il grande giorno e partiamo per il provino con l’Internacional. L’occasione di una vita. Andiamo  da Porto Branco a Porto Alegre, 9 ore di viaggio. Arriviamo lì e mio padre realizza di non potersi permettere un hotel vero e proprio. 

Quindi che fa? Prende una stanza in un motel.

E mi dice: “Figlio mio, questo è l’unico posto che possiamo permetterci”.

Io gli rispondo: “Non c’è problema papà!”

AHAHAHAHAHAH. Non avevo idea! Ero troppo piccolo per capire. Credo che nella nostra camera ci fosse un letto minuscolo e basta. L’hotel era di fronte al Beira-Rio, quindi la gente faceva sesso mentre guardava lo stadio dell’Internacional.

Ancora ci scherzo con mio padre. Se lo facesse oggi probabilmente finirebbe in galera. 

Subito dopo stavamo camminando intorno allo stadio - meraviglioso - quando si avvicina un dirigente del club: “Ragazzo, non dovresti essere ad allenarti?” Cavolo. Abbiamo fatto confusione con gli orari. Ancora peggio, le mie scarpe sono al motel. Quindi mio padre corse per prenderne un paio, ma cosa c’è nella borsa quando torna? 

Uno scarpino con i tacchetti di gomma e l’altro con quelli di metallo.

Gli dico: “Papà mi prendi in giro? Come faccio a giocare così???”

Fortunatamente c’era una promessa del settore giovanile che si chiamava Cocão, che aveva un contratto di sponsorizzazione per gli scarpini e me ne prestò un paio. UUUUH! Avanti tutta.

Grazie a Dio fui preso nell’Inter. Ma giuro che non pensavo di diventare un professionista. Infatti mi sentivo fortunato solo per il fatto di poter giocare. Forse avete già sentito questa storia…

Circa un anno prima inciampai su una catena in un parcheggio cadendo sul braccio sinistro. Mi fasciarono pesantemente, ero metà uomo, metà mummia. Giocai un torneo con il braccio fasciato. Quando mi tolsi il gesso, giocai con i miei amici a un gioco stupido in cui chiunque si alzasse dal divano veniva preso a calci - a meno che non riuscisse a scappare. Era divertente fino a quando, per errore, mi sedetti sul braccio sinistro e il dolore fu talmente forte da raggiungere le gambe.

Il dottore mi fece una radiografia e trovò un grande tumore.

Disse: “Deve essere operato subito o lo dovremo amputare”.

Rimasi scioccato. Ero a 24 ore dal perdere il mio braccio sinistro.

Ma pensate che i miei genitori potessero permettersi l’operazione? Pfffffffft

Pensavamo tutti, e adesso che facciamo?

Beh, mio padre si arrangiò di nuovo. Di solito filmava le mie partite. Quindi portò le cassette in ospedale, pregò, andò nell’ufficio del medico e mise alcuni filmati sgranati in cui c’era questo ragazzo sorridente che correva per un campo di calcio a 5.

Alexandre Pato | Orlando City F.C. | What Really Happened to Alexandre Pato | The Players’ Tribune
Courtesy Alexandre Pato


Disse: “Dottore questo è mio figlio. Non so come pagare per questo, ma non voglio vederlo smettere di giocare”.

Dopo non so cosa sia successo. Forse il dottore pensò che ero bravo. Forse ascoltò la voce di Dio.

“Non ti preoccupare, tuo figlio lo opererò gratis”.

Fu un miracolo.

Non dimenticherò mai quel nome: Paulo Roberto Mussi. Mi ha dato una nuova vita.

Il recupero fu dolorosissimo. La banca delle ossa non aveva l’osso compatibile con il mio braccio, quindi furono costretti a prendermene uno dall’anca. Dovevo anche tornare all’ospedale Pato Branco ogni sei mesi per dei controlli. Una volta il braccio mi era diventato VERDE. Strillavo. Più iniezioni per favore! 

Fortunatamente fui in grado di tornare a giocare. Qui è quando fui preso dall’Internacional.

Lasciare i miei genitori non fu affatto facile. Non potevano permettersi di vivere a Porto Alegre. Entrambi mi dissero: “VAI!”, ma credo che per loro fu ancora peggio. Dopo che me ne sono andato, mia madre ha continuato ad apparecchiare la tavola come se fossi ancora lì. Riordinava la mia stanza come se dovessi rientrare da un momento all’altro.

C’erano ancora tante cose che dovevano insegnarmi. Come calciatore ero pronto per il mondo. Come persona, neanche lontanamente.

Non ero minimamente pronto per il settore giovanile dell’Internacional. I più giovani dovevano fare di tutto per i più grandi: lavargli le mutande, pulirgli gli scarpini e andare al distributore di benzina per comprare le patatine. Facevano un gioco che si chiamava Marcar o Gado in cui chiamavano un ragazzo, prendevano un pezzo di legno e glielo sbattevano sulle gambe. AHIA. Orrore totale.

Piangevo tanto. Mi nascondevo nella mia camera. Non potevo dirlo a mia madre, perché sapevo che il giorno dopo sarebbe venuta lì per riportarmi a casa. Quindi le dicevo: “Ohhh, va tutto alla graaaande!”

Il calcio? Divertimento totale. Passai rapidissimamente dall’Under 15 alla Prima squadra. A 17 anni presi parte al Mondiale per Club segnando in semifinale e giocando contro il Barcellona in finale. Lì è quando incontrai Ronaldinho.

Daaaaaai. Abbiamo bisogno di inventare una nuova parola per descriverlo. È magico. Non è reale. Quel giorno non ero un rivale, ero un fan. Nel tunnel gli dissi: “Tieni la tua maglia per me”. La partita praticamente non mi interessava! Una volta finita non facevo altro che chiedere: “Dov’è? Dov’è?”. Tutti corsero per prendere la sua maglia, ma mantenne la sua parola. La diede al più piccolo. Questo è Ronnie.

Come sapete, il Mondiale per Club è IMPORTANTISSIMO in Brasile. Quando vincemmo 1-0, fu il momento più importante della storia dei Colorados. Presto ci ritrovammo a festeggiare su un camion dei vigili del fuoco per le strade di Canoas. Io tenevo il trofeo e la gente gridava il mio nome.

Sette anni prima non avevo mai giocato a calcio a 11.

E adesso ero Campione del Mondo.

Dopodiché sarei potuto andare al Barcellona, all’Ajax, al Real Madrid. Perché il Milan? Beh, lasciate che vi faccia una domanda.

Avete mai giocato con quel Milan alla PlayStation?

Erano incredibili!!! Kaká, Seedorf, Pirlo, Maldini, Nesta, Gattuso, Shevchenko… Sheva era inarrestabile! Il Fenomeno, il VERO Ronaldo. Avrei potuto giocare con lui. Che formazione. Avevano appena vinto la Champions League. Il Milan in quei tempi era la squadra. Pensavo, Quando è il prossimo volo?

Quando sono atterrato a Milano, una parte delle visite mediche era un esame della vista. Come uno stupido premei troppo forte il palmo della mano contro l’occhio e quando lo aprii vedevo a malapena. Il dottore mi mise delle gocce dilatanti, ma quando uscii dalla stanza ero praticamente cieco. E chi si presenta? Il grande Ancelotti.

Mi dice: “Tutto bene?”

Dissi: “Tutto bene”, ma riuscivo a malapena a vederlo. Abbiamo fatto una foto insieme in cui i miei occhi erano praticamente chiusi, ahahahahah.

Carlo mi portò nella sala da pranzo. “Questo è Pato, il nostro nuovo attaccante”. Si alzarono tutti in piedi per stringermi la mano. Uno ad uno. Ronaldo, Kakà, Seedorf. WOW.

Quello fu il mio primo giorno al Milan. Il videogioco era diventato realtà

Alexandre Pato | Orlando City F.C. | What Really Happened to Alexandre Pato | The Players’ Tribune
Luca Bruno/AP Photo

Sfortunatamente, alla fine di agosto scadeva il termine della registrazione delle liste e io non avevo ancora 18 anni, quindi fui costretto a saltare il Mondiale per Club. Sono nato il 2 settembre. Se fossi venuto al mondo qualche giorno prima sarei stato Campione del Mondo due volte. Ma solamente potermi allenare con queste leggende era speciale. I brasiliani mi accolsero a braccia aperte: Ronaldo, Cafu, Dida, Kakà. E no, non vivevo a casa di Cafu!! – però uscivamo spesso perché i suoi figli avevano più o meno la mia età. Cafu era davvero disponibile: ogni volta che usciva per mangiare aveva bisogno di un van, perché c’erano almeno 10 persone con lui.

I brasiliani mi proteggevano sempre anche in allenamento. C’era Kakha Kaladze, il capitano della Georgia, un gigante. Un giorno mi fece a pezzi. BAM!

Io ero abbastanza dispiaciuto. Ma i brasiliani mi dissero: “Oi! Devi essere forte! Se te le dà, tu gliele ridai”.

Io???

Loro dissero: “Sì, te! Se succede qualcosa, ci siamo noi”.

Quindi Kaladze prende la palla e io gli entro. BUM!. È per terra. Ca***,  e adesso? Si alza e si avvicina e io penso che mi metterà K.O. Allunga la mano eeeeee….

… alza il pollice.

Buon lavoro,” mi dice.

Era quella la mentalità che volevano al Milan.

Ancelotti diventò come un padre per me. Ha addirittura chiamato il suo cane Pato. Avete visto la foto dei festeggiamenti sul bus scoperto a Madrid, con gli occhiali da sole e il sigaro? Ecco, al Milan certe volte arrivava in elicottero. Viveva a Parma e sua moglie lo sapeva guidare. Scendeva come James Bond. Se c’è qualcuno che sa come si vive con stile, quello è Carlo.

Ho imparato tantissimo da quei campioni. Nello spogliatoio ero seduto accanto a Ronaldinho. Dopo l’allenamento Carlo diceva a Seedorf e Pirlo di farmi dei lanci lunghi così avrei saputo dove correre. Pirlo diceva: “Tu corri, che il pallone arriva”. E arrivava sempre.

Un giorno durante la mia seconda stagione arrivai per allenarmi sui calci di punizione. Chi c’era a calciare?

Pirlo.

Seedorf.

Ronaldinho. 

Beckham. 

Sai cosa? Mi sa che oggi guardo e basta.

Chiaramente sapevamo tutti chi era il proprietario del club. Un giorno mi chiama Silvio Berlusconi. Era un grande Presidente, raccontava sempre barzellette. Io uscivo con sua figlia Barbara. Io dribblavo tanto sulla fascia, oplààààà, superavo chiunque. Silvio mi disse: “Perché dribbli verso l’esterno?” Voleva che giocassi più al centro. Presto Carlo e Leonardo iniziarono a dirmi lo stesso.

È così che ho segnato quel gol al Camp Nou. Ero al centro, ho visto uno spazio e l’ho attaccato di corsa. Quando Valdés è uscito pensai, Ca***, che faccio? Dribbling? Pallonetto? Ho provato a calciare alla sua sinistra, ma la palla gli è finita tra le gambe. Wow. La fortuna è cieca.

Credo che anche Dio volesse che facessi gol.

Tra me e me pensavo. Guardiola starà guardando? Lo ammiravo tanto. Disse che neanche Usain Bolt avrebbe potuto prendermi. Quant’è bello quando è così? È stato il gol più bello che abbia mai segnato. Anche la telecronaca fu meravigliosa.

La gente ancora mi dice: “Ventiquattro secondi!”

In quei giorni pensavo che sarei arrivato davvero al top.

Le aspettative erano altissime. La cosa certa era che io fossi il super talento. Giocavo già per il Brasile. La stampa scrive di te, i tifosi parlano di te e anche gli altri giocatori ti esaltano.

Alexandre Pato | Orlando City F.C. | What Really Happened to Alexandre Pato | The Players’ Tribune
Simon Bruty/Sports Illustrated via Getty Images

PATO DIVENTERÀ IL MIGLIORE DEL MONDO.

PATO VINCERÀ IL PALLONE D’ORO.

Amavo le attenzioni. Volevo che si parlasse di me. Ma sapete cosa è successo?

Ho iniziato a sognare troppo. Anche se continuavo a lavorare duro, la mia fantasia mi portava in posti di tutti i tipi. Nella mia testa avevo già il Pallone d’Oro in mano. Non potevo evitarlo. È davvero difficile non lasciarsi travolgere. Avevo sofferto tanto per arrivare lì. Quindi perché non godersela? 

Quando vinsi il Golden Boy che mi consacrava come miglior giovane d’Europa nel 2009, non pensavo al Pallone d’Oro. Mi stavo solo divertendo e OPA!   — un premio.

Quando vivevo nel presente ero inarrestabile.

Ma la mia mente rimaneva incastrata nel futuro.

Poi nel 2010 ho iniziato a essere infortunato tutto il tempo. Non avevo più fiducia nel mio corpo. Aveva paura di quello che la gente potesse dire di me. Andavo ad allenarmi pensando, Non posso infortunarmi. Se mi infortunavo non lo dicevo a nessuno. Una volta mentre stavo recuperando da un problema muscolare ebbi una distorsione alla caviglia e continuai a giocare. Era gonfia come un pallone ma non volevo lasciare la squadra. Uno dei miei difetti era che volevo accontentare tutti.

La gente si aspettava che segnassi più di 30 gol a stagione, ma non potevo nemmeno entrare in campo. Potevo accettare che gli altri dubitassero di me. Ma quando il dubbio viene da dentro? È un’altra cosa.

E allora sapete cosa succede? Che scopri chi ti ama davvero. Un sacco di gente intorno a me pensava, Hmmmmmm, dopo tutto questo non credo che ce la farà.

Mi sentivo così solo. All’Internacional sono sempre stato super protetto. Tutti facevano qualsiasi cosa per me. Non sapevo niente di infortuni, preparazione fisica o dieta — perché non ne avevo bisogno. Dovevo solo pensare a giocare.

Quindi quando ero in difficoltà al Milan, non avevo idea di cosa fare.

Oggi ogni giocatore ha un team che lo segue no?! Dottore, fisioterapista, preparatore. All’epoca solo Ronaldo ce lo aveva. Non avevo parenti vicino. La mia famiglia era ancora in Brasile. Avevo un agente, ma non si occupava di tutto come fanno gli agenti ora. Chiaramente il Milan aveva i medici e lo staff, ma dovevano seguire 25-30 giocatori. Non potevano stare con me tutto il tempo.

Una volta ho giocato contro il Barcellona dopo aver visto un medico ad Atlanta. Ero stato in aereo per 10 ore e avevo fatto solamente un allenamento. Era normale che mi infortunassi! Nesta stava impazzendo: “Non avrebbe dovuto giocare, ma siete tutti matti?”.

Io non capivo. Pensavo, Facciamo un altro tentativo.

Io non sapevo come funzionasse quel mondo. All’Internacional non mi interessavano neanche le trattative per il mio contratto — rinnovatelo così posso continuare a giocare. La politica dietro le quinte non la capivo. Il calcio è come un teatro in cui devi comportarti in un certo modo per ottenere ciò che vuoi. Ma per me era semplicemente un gioco.

Quando la stampa scriveva bugie sul mio conto, non avevo un PR. Avrei dovuto chiarire delle cose, ma non ho mai capito l’importanza di comunicare bene e costruire relazioni. Mi era stato detto che i risultati in campo erano gli unici a contare. Questo semplicemente non è vero.

Andavo a molte feste? Non tanto come vi hanno fatto credere.

Non avevo voglia? Lo dicevano per il mio modo di correre. Ma dai. Chi può saperlo veramente? Dio mi ha fatto così. Non posso cambiarlo.

Volevano vedermi entrare in scivolata. Volevano sangue, sudore e lacrime.

Hanno avuto le lacrime. Ho pagato a caro prezzo.

Avrei dovuto dire a tutti la verità. Ricordate la storia del PSG? Galliani era in Inghilterra per prendere Tevez e il PSG mi fece un’offerta incredibile. Io volevo andare — lì c’era Ancelotti — ma Silvio mi disse di rimanere. Ero infortunato, quindi i tifosi pensarono: “Ooooh Pato non è voluto andare via! Con Tevez avremmo vinto!” Anche la stampa era impazzita. Io pensavo, Cosa? Io volevo andare!

Ho saltato la Coppa del Mondo del 2010. La storia sul PSG venne fuori a gennaio 2012. Non stavo praticamente giocando. Mentalmente ero distrutto. Ero il grande flop, il ragazzo con un sacco di soldi, quello che anche i tifosi volevano dare via.

Non ho mai capito l’importanza di comunicare bene e costruire relazioni. Mi era stato detto che i risultati in campo erano gli unici a contare. Questo semplicemente non è vero.

Alexandre Pato

Sapete quanto ho lottato per provare a tornare?

Ho girato il mondo. Ho visto ogni medico che valeva la pena vedere  — e anche qualcuno in più. Un medico ad Atlanta mi ha messo a testa in giù mentre mi faceva girare su me stesso. Diagnosi? I miei riflessi non erano allineati con i miei muscoli. Un dottore in Germania mi ha iniettato del liquido in tutta la schiena — il giorno dopo camminavo per l’aeroporto di Monaco ingobbito dal dolore. Un medico mi ha infilato 20 aghi ogni mattina e ogni sera. Potrei continuare all’infinito.

Stavo vedendo il dottore numero 6,7,8, … ognuno di loro diceva una cosa differente.

Pensavo, Cavolo, che cosa ho?

Ho pianto, pianto e pianto ancora. Avevo paura che non avrei potuto più giocare a calcio.

Ecco perché sono andato al Corinthians a gennaio 2013. Sì, volevo andare ai Mondiali nel 2014, ma volevo anche lavorare con Bruno Mazzotti, il fisioterapista di Ronaldo. Una volta arrivato lì, mi rimossero un muscolo dal braccio per fare una biopsia. Io ero sdraiato nel letto mentre tremavo dal dolore. Dopo 20 giorni scoprirono che alcuni dei miei muscoli si erano accorciati a causa degli infortuni. Avevo più tessuto muscolare nella parte frontale della gamba rispetto a quella posteriore. Tutto il mio corpo era sbilanciato.

Grazie a Dio Bruno mi ha rimesso nuovamente in forma. Dal 2013 credo di aver avuto solamente tre infortuni muscolari.

È stato un peccato di come siano andate le cose al Corinthians.

Sono arrivato lì come una star. Quando guadagni tanto in Brasile, dove c’è molta disuguaglianza, i tifosi sono molto esigenti. Quindi quando sbagliai il rigore contro il Gremio facendo il cucchiaio nei Quarti di Finale della Coppa del Brasile, mi presi tutte le colpe. Sì, fu un rigore terribile, ma non è vero che i compagni mi picchiarono. Nessuno fece niente. I tifosi volevano uccidermi però. Giravo per San Paolo con delle guardie del corpo armate, e una macchina con vetri antiproiettile e gas lacrimogeni. I tifosi che entrarono nel nostro centro sportivo avevano mazze e coltelli. Fu spaventoso. Le cose che sono successe non dovrebbero far parte del calcio.

Sapete perché ho giocato molto meglio nel San Paolo? Perché si sono presi cura di me nella maniera giusta. Lì dovevo solo giocare. Ma quando mi chiamò il Chelsea, sognavo ancora l’Europa.

Sfortunatamente, ho pagato ancora una volta il prezzo dell’essere iperprotetto.

Ancora non capisco. Pensavo che il Chelsea mi volesse prendere in prestito per sei mesi per poi farmi firmare per tre anni. Non pensavo che avessero potuto dire di no dopo il prestito. Se lo avessi saputo?! Sarei andato da qualche altra parte. Fu una pena, perché mi allenavo bene e l’allenatore mi fece giocare solamente due volte. Non ho mai capito il perché.

Poi tornai al Corinthians, dove la gente voleva che me ne andassi. Volevo rimanere in Europa, quindi feci qualcosa che non avevo mai fatto prima. Chiamai Daniele Bonera, che conoscevo dai tempi del Milan, e che giocava nel Villarreal: “Bony, credi che possano essere interessati?”

Beh, l’allenatore Marcelino mi offrì un contratto e partii per la Spagna. OPA! Avevo architettato il mio trasferimento.

Contatti. Relazioni. È così che funzionava.

Quello per me è stato un punto di svolta. In tutti quegli anni mi ero comportato come se fossi ancora il ragazzino dell’Internacional. A 27, ho realizzato che fosse arrivato il momento di cambiare. 

Dovevo prendermi cura del mio destino.

Sfortunatamente le cose al Villarreal non andarono bene, ma il Tianjin Tianhai fu una rivelazione. Quando sono andato in Cina, mi ero lasciato con la mia fidanzata e mi trasferii lì con un amico. Perché? Per riconnettermi con me stesso. Non avevo mai avuto il tempo di fare il punto della situazione. Ora pensavo, Aspetta un attimo, cosa mi piace? Cosa è importante per me?

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Sam Robles/The Players' Tribune

Ho iniziato a focalizzarmi sulla salute mentale e sulle relazioni. Sono andato da un terapista. Ho imparato a trovare la felicità nel lavoro duro. Continuavo a divertirmi, ma trattavo il calcio come un lavoro. Mi sono preso la responsabilità di ogni aspetto della mia carriera. Durante il mio primo anno a Milano, non parlavo italiano. In Cina ho imparato a conoscere il cibo e la cultura. Quando ero a casa mangiavo addirittura riso e noodles.

Il bambino è maturato. Giocavo bene. Avevo capito che il calcio va ben oltre a quello che succede in campo ed è stato davvero gratificante.

Era come se avessi dato un senso alla mia vita.

Ma poi ho preso la strada sbagliata. Dopo la Cina ero ancora single, quindi ho deciso di godermi la mia libertà. Sono andato a Los Angeles. Volevo l’hotel più costoso, la miglior macchina e le feste più esclusive. Mi sono ritrovato in questo posto in cui la ragazza accanto a me sniffava cocaina. All’improvviso ho pensato, Che ci faccio qui?

Non era questo quello che volevo. Era un mondo vuoto. Ho chiesto a un amico: “Passerò davvero il resto della mia vita da solo?”

Quindi sono tornato in Brasile e ho scritto a una vecchia amica, Rebeca: “Ti va di uscire?” Prendiamo un caffè e dopo pochi secondi penso, Sì, questo è quello che voglio.

La volta dopo in cui ci siamo incontrati lei dice: “Stiamo andando in Chiesa”.

Chiesa?

Fu una rivelazione, la Bibbia aveva tutte le risposte che stavo cercando. Ho rivolto la mia testa verso il cielo e ho detto “Signore, non voglio più questa vita”.

Quel giorno la mia vita è cambiata per sempre.

Da quel momento ho vissuto in una maniera differente. Quando sono andato a Orlando e ho subito quell’infortunio al ginocchio l’anno scorso, sarei potuto crollare. Il giorno dopo ho deciso che sarei tornato più forte di prima e adesso so tutto sul ginocchio. Hai un infortunio? Chiama il Dottor Pato.

La mia carriera sarebbe potuta andare diversamente? Sicuro. Ma è facile guardare indietro e dire cosa avrei dovuto fare. Quando sei lì certe cose non riesci a vederle. Quindi nessun rimpianto. Guardo il lato positivo. Sono in forma. Mentalmente sto alla grande. Amo ancora il calcio.

Perché dovrei essere arrabbiato? Abbiamo solo una vita in questo mondo.

Credo ancora che posso andare i Mondiali. Guardate gente come Thiago Silva e Dani Alves. Giocano ancora a 37 e 39 anni.

Ma queste cose succedono quando Dio vuole. Io vivo solo il presente. Il resto lo decide Lui.

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Andrea Vilchez/SPP/Sipa USA via AP Images

Quando cresci realizzi cosa ti fa felice. Quando sono andato via di casa credevo che il calcio fosse tutto ciò che volevo. Sono andato in Italia, in Inghilterra, in Spagna, in Cina. Ho sofferto, ho pianto, ho urlato dal dolore. Ero sempre solo.

Non sarò diventato il miglior giocatore del mondo. Ma lasciate che vi dica un po’ di cose.

Ho uno splendido rapporto con la mia famiglia.

Sono in pace con me stesso.

Ho una moglie che amo.

Per come la vedo io, ho tanti Palloni d’Oro.

Se la vita è un gioco, ho vinto.

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