La scossa di assestamento

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Dobbiamo iniziare dal terremoto. 

Se volete sapere cosa significa veramente il calcio in Messico, questa è la storia. 

17 giugno 2018: stavamo giocando contro la Germania – i campioni in carica – nella nostra prima partita al Mondiale in Russia. Quando segnai al 35° minuto, in Messico si scatenò il pandemonio. Tutti quelli che guardavano la partita in TV iniziarono a saltare su e giù esultando – milioni di persone nello stesso momento – e la terra cominciò a tremare. 

Non me lo sono inventato. Il gol causò un vero e proprio terremoto. Il dipartimento di sismologia del Messico rilasciò persino un comunicato. Le loro apparecchiature avevano rilevato un evento sismico a Città del Messico esattamente nello stesso momento del gol. Noi avevamo segnato e i tifosi a casa avevano fatto tremare la terra. 

Provate a immaginare una cosa del genere. 

In Messico, è questo il significato del calcio. Es una locura. È una pazzia.

Fuori, c’era un terremoto. Dentro di me era come se fosse esplosa una bomba.

Hirving Lozano

Inoltre, era il mio debutto alla Coppa del Mondo. E io avevo segnato il gol decisivo. Contro i campioni. Pffft … ve lo immaginate? Sono poche le persone che vivono un momento del genere. Mi fa venire la pelle d’oca. Ricordo che tutta la mia famiglia piangeva. Ho saputo del terremoto solo dopo uno o due giorni, ma quello che avevo visto a Mosca era già qualcosa di speciale. Ho sentito le urla, i cori, l’incredibile energia dei tifosi messicani. Sui social media, ho visto i festeggiamenti dei tifosi ubriachi nei bar, sulla metropolitana, nelle strade.

E tutti cantavano il mio nome, in continuazione. Conoscete la melodia della canzone dei White Stripes?

“Elllll Chuuu-cky Lo-za-AAA-nooo!”

Quel giorno ha cambiato tante cose per me. Mi ha fatto entrare nei libri di storia messicani, ha elevato il mio status nella squadra nazionale, ha persino contribuito al mio trasferimento al Napoli (ne parleremo più avanti). Ma, soprattutto, mi ha cambiato personalmente.

Fuori, c’era un terremoto. Dentro di me era come se fosse esplosa una bomba. Sinceramente, sento ancora le scosse di assestamento.

Ho solo 27 anni, ma per certi versi mi sembra di aver già vissuto la vita di 10 persone. 



Ero un esile ragazzino di Città del Messico con lo stesso sogno di milioni di altri. 

Un giorno giocherò all’Estadio Azteca.

Quanti bambini se lo sono detti? Ma a me sembrava più vero, perché casa nostra si trovava sull’Avenida del Iman, a soli tre minuti dallo stadio. Se guardavo in alto, potevo vedere le luci. Dominava il quartiere. Ovunque andassi, lo potevi vedere.

La nostra casa si trovava in una fila di edifici e sul retro c’era un parco dove giocavamo a pallone. Devo essere sincero... il campo era orribile. Era completamente sconnesso e con sassi dappertutto, ma potevate sempre trovarmi lì, assieme ai miei fratelli, con un pallone.

Forse saprete perché mi abbiano soprannominato così, ma vi racconterò la vera storia....

Hirving Lozano

Quando giocavamo, avevo fiamme negli occhi e un diavoletto sulla spalla. Io e i miei fratelli litigavamo sempre. Io litigavo con tutti... haha! Fuori dal campo ero un ragazzino timido, ma il gioco del calcio lo vivevo in modo diverso. Ero una persona diversa.

Poi, sono diventato “El Chucky.” 

Forse saprete perché mi abbiano soprannominato così, ma vi racconterò la vera storia....

A 10 anni giocavo nell’accademia del Pachuca e facevo sempre scherzi ai miei compagni di squadra: cose infantili, come nascondersi nell’armadio o sotto il letto e poi saltare fuori per spaventarli. All’epoca ero un piccolo bambino di 10 anni con i capelli a spazzola e quindi credo che per loro fossi come Chucky, protagonista del film La bambola assassina

Ma il nome non è mai voluto essere un insulto. Un giorno, durante la prima settimana di permanenza, un paio di miei compagni di squadra sono venuti da me dicendo: “Ehi, sai, stavamo pensando... ti darebbe fastidio se ti chiamassimo Chucky?”

Erano venuti a chiedermi il permesso!

E io ho risposto: “Nessun problema”. 

Sarebbe potuto essere peggio, no?

E da quel momento in poi è rimasto con me. A seconda di dove mi trovo nel mondo, viene pronunciato in modo diverso. A Napoli sono abituato a sentire “Ciocci” o anche “Cuchi” haha! Ancora oggi ci sono persone che non usano mai il mio vero nome: credo che nemmeno il presidente del Pachuca lo conoscesse! Ero solo Chucky Lozano.

Sarò per sempre grato al Pachuca perché, a 18 anni, avevo già realizzato il sogno della mia infanzia. Cinque minuti dopo essere entrato in campo al mio debutto in prima squadra, ho segnato il gol della vittoria contro il Club América. All’Azteca.

Hector Vivas/LatinContent via Getty

È stato un momento incredibile, ma sapete qual è la cosa più assurda? Solo 10 giorni prima era nata mia figlia, Danielle.

Un tempismo eccezionale.

È stato … boom … un altro terremoto. 

Dovevo stabilire un nuovo sogno, obiettivi più grandi. Ho iniziato a vedere il mondo in modo diverso. 

Hirving Lozano

A essere sincero, ho avuto paura. Ero così giovane. Quando mia moglie Ana è rimasta incinta, non avevo idea di cosa sarebbe successo alla mia carriera. Stavo ancora cercando di farmi strada nell’under 17 e nell’under 20. Ero un ragazzino. Litigavo ancora con tutti! Ma non appena Danielle è arrivata, ho saputo subito cosa fare. Avevo finito di vivere per me. Dovevo vivere per lei. 

Anche se stavo per sfondare al Pachuca, guadagnavo ancora poco e ora avrei dovuto pagare tutto. Dovevo dare il meglio alla mia famiglia. Quindi, poter dire di aver segnato all’Azteca non era più sufficiente. Dovevo stabilire un nuovo sogno, obiettivi più grandi. Ho iniziato a vedere il mondo in modo diverso. 

Ho dato un’occhiata alla cartina. Ho ascoltato quello che dicevano i giornalisti e mi sono detto: Hmmm... Europa, devo giocare in Europa. E lì che giocano i migliori.



Tre anni più tardi, avevo portato la mia famiglia dall’altra parte del mondo, nei Paesi Bassi, con il PSV. Devo ringraziare Dio, perché il trasferimento andò molto bene. Nella mia prima stagione abbiamo vinto il campionato e nella seconda ho giocato nella Champions League e ho anche giocato da titolare nel Messico. 

Ancora una volta, nella mia carriera, Ana ed io ci siamo fermati e ci siamo chiesti: “Aspetta, ma cosa sta succedendo? Questa è la nostra vita, ora? Come siamo arrivati qui?!” Così tante cose erano successe tra il mio debutto e il PSV. Erano passati alcuni anni, ma per certi versi sembravano solo pochi giorni.

Dopo la Coppa del Mondo (e il terremoto), accadde un’altra cosa incredibile. Un giorno, ho ricevuto una telefonata da un numero italiano.

“Hola, Chucky? Sono Carlo Ancelotti”.


Quando ho sentito il nome, sono quasi impazzito.

Ancelotti aveva lavorato come opinionista per Televisa in Messico durante la Coppa del Mondo e aveva visto il mio gol. Voleva che io andassi a giocare per lui al Napoli.

Durante la stagione 2018-19, ricevevo telefonate da lui ogni settimana. Quando mi infortunavo, mi chiedeva: “Come va il ginocchio? Come procede il recupero?”

È una persona così. Quando mi chiese di andare al Napoli, come potevo dire di no?

Conosci già Ancelotti. È un grande allenatore, ma è ancora migliore come persona.

Andreas Solaro/AFP via Getty

La prima sera in Italia portò me e la mia famiglia a cena con tutta la sua famiglia. E intendo tutta la sua famiglia: portò anche i nipoti. Questo fu molto importante per me, perché credo che a volte la gente non si renda conto di quanto sia difficile cambiare Paese come calciatore. Soprattutto per i latinoamericani, perché la cultura europea è così diversa e sei così lontano dalla famiglia. Ma Ancelotti sapeva come farti sentire a casa tua. Quell’umanità mi è rimasta impressa.

Fu uno shock quando fu licenziato dopo alcuni mesi di risultati zoppicanti. E, se devo dire la verità, ho avuto problemi mentali nella prima stagione. Giocavo e non giocavo e le cose diventarono difficili. 

Non molto tempo dopo la partenza di Ancelotti, arrivò il COVID. Ana e i bambini erano tornati in Messico e io avrei dovuto raggiungerli durante una pausa internazionale nel marzo del 2020, ma all’improvviso tutti i voli furono cancellati e io rimasi intrappolato da solo dall'altra parte del mondo. 

All’inizio, nessuno capiva cosa stesse succedendo. Pensavo che la cosa si sarebbe risolta in pochi giorni. Dopo qualche settimana, ho detto al club che non ce la facevo più. Li ho supplicati di lasciarmi tornare a casa. Ma loro dicevano: “Guarda, non puoi andartene. Non si tratta solo di una multa, finirai in galera”.

Giacomo Cosua for The Players' Tribune

Fu un momento da film dell’orrore. Alla fine, come molte persone in quel periodo, trascorsi tre mesi da solo, e mi sembrò di impazzire. Mi sentivo così solo e così lontano dai miei sogni. Mi ero trasferito in Europa per la mia famiglia e ora eravamo così lontani. Non avevo nemmeno il calcio come distrazione.

Da allora ci sono stati altri ostacoli sul mio cammino, ma sono fortunato perché mi sono sempre ripreso. Abbiamo vinto la Coppa Italia, al riavvio dei campionati dopo il blocco, e sono diventato il primo giocatore messicano a vincere un trofeo in Italia. Sono stato anche il primo messicano a segnare in Serie A e abbiamo mancato lo scudetto di un soffio

Ho avuto altri grandi allenatori da cui ho imparato molto. Personaggi molto diversi tra loro, come Gattuso (una persona che vuole vivere a 100 all’ora) e Spalletti, che cerca di imbrigliare il diavoletto che ho sulla mia spalla.

Abbiamo lottato molto per essere qui.

Hirving Lozano

Spero di essere riuscito ad aprire le porte ai miei connazionali. E se attraverseranno queste porte, troveranno una cultura molto diversa, ma per certi versi molto simile. La passione che i tifosi hanno qui a Napoli è incredibile. Non riesco a spiegarla. Il modo in cui sostengono la loro squadra... come giocatore, ti riempie di energia e di orgoglio. C’è anche pressione, ma ormai ci sono abituato. Mi piace.

I tifosi messicani hanno la stessa mentalità – come avete visto in Russia, la nostra passione è qualcosa di diverso. Può causare terremoti. Cosa posso dire? Viviamo il calcio meravigliosamente



So che alla gente piace parlare della maledizione de el quinto partido – la quinta partita della Coppa del Mondo – e della pressione sulla squadra messicana, ma onestamente non me ne importa nulla. Non vale la pena parlarne se non per dire: non mi interessa la superstizione. È un cliché, e dobbiamo concentrarci sul presente, non sulla storia, e gestire una partita alla volta. Prima partita, seconda partita, terza... e poi, si spera, seguiranno buone cose. Magari anche una quinta partita.

Ma non possiamo dare nulla per scontato. Quando arriva la Coppa del Mondo, credo che tutti si aspettino che il Messico e i nostri tifosi siano lì a riempire gli stadi e le strade con la nostra passione e i nostri colori.

E sappiamo cosa serva per arrivare negli ultimi 32. Abbiamo lottato molto per essere qui.

Forse altri pensano che le qualificazioni CONCACAF siano facili per una squadra come il Messico, ma lasciatemi dire che non sono uno scherzo.

Chiunque pensi che abbiamo vita facile dovrebbe andare a giocare in trasferta nel Panama, con razzi e fuochi d’artificio che esplodono tutta la notte fuori dalla finestra dell’hotel. I tifosi distruggono il pullman della squadra con bottiglie, sassi, monete... tutto ciò che può essere lanciato.

Una volta a Panama hanno spento i riflettori a metà partita, solo per prenderci in giro, e poi li hanno lasciati spenti per 30 minuti, per cercare di rovinarci il ritmo.

Provate poi an andare al nord, in Canada, come abbiamo fatto noi lo scorso novembre, e giocare a -23°C, con il campo completamente ghiacciato, come se fosse cemento. Non ho mai avuto così tanto freddo in vita mia! Quella sera a Edmonton avevano ribattezzato lo stadio “Ghiaccioteca”!

Poi c’è stata la Gold Cup dell’anno scorso. Vi ricordate quando sono andato a sbattere contro il ginocchio del portiere di Trinidad e Tobago?

Il mio collo è ruotato di 180 gradi, la mia spina dorsale è rimasta danneggiata e il mio occhio è... esploso. Ho avuto molta paura. Ho pianto tanto. Ho temuto per la mia vita, sinceramente. Grazie al chirurgo, sono rimasto fuori per soli tre mesi, ma molti medici mi hanno detto che è stato miracolo che sia sopravvissuto, per non parlare del fatto che sia riuscito a tornare in campo così rapidamente.

Omar Vega/Getty

Per questa Coppa del Mondo abbiamo sofferto. 

Personalmente, non sono lo stesso ragazzo che ero quattro anni fa in Russia. Non siamo la stessa squadra... In questi quattro anni abbiamo vissuto tante cose, alcune belle, altre brutte. Ma siamo lo stesso Paese. Vivremo tutti insieme questi momenti, 130 milioni di persone.

Noi soffriremo e voi soffrirete. 

Noi proveremo gioia e voi proverete gioia. 

Se voi credete, noi crederemo. 

Anche quando siamo dall’altra parte del mondo, vi sentiamo. 

Io l’ho sentito. 

Facciamo tremare la terra.

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